lunedì 29 settembre 2014

Spoiler

 Spoiler

Solo allora lo colpì, con dolorosa risonanza dell'animo, il ricordo del lontanissimo giorno in cui per la prima volta egli era salito alla Fortezza, dell'incontro col capitano Ortiz, proprio nello stesso punto della valle, della sua ansia di parlare con una persona amica, dell'imbarazzante dialogo attraverso il burrone.
Esattamente come in quel giorno, pensò, con la differenza che le parti erano cambiate e che adesso era lui, Drogo, il vecchio capitano che saliva per la centesima volta alla Fortezza Bastiani, mentre il tenente nuovo era un certo Moro, persona sconosciuta. Capì Drogo come un'intera generazione si fosse in quel  frattempo esaurita, come lui fosse giunto al di là del culmine della vita, dalla parte dei vecchi, dove in quel giorno remoto gli era parso di trovare Ortiz. E a più di quarant'anni, senza aver fatto nulla di buono, senza figli, veramente solo nel mondo, Giovanni si guardava attorno sgomento, sentendo declinate il proprio destino.
Vedeva roccioni incrostati di cespugli, canaloni umidi, lontanissime creste nude accavallantisi nel cielo, l'impassibile faccia delle montagne; e dall'altra parte della valle quel tenente nuovo, timido e spaesato, che si illudeva certo di non restare alla fortezza che per pochi mesi, e sognava una brillante carriera, gloriosi fatti d'arme, romantici amori.
- Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari.

sabato 27 settembre 2014

 Spoiler

In una bellissima mattina di settembre ancora una volta Drogo, il capitano Giovanno Drogo, risale a cavallo la ripida strada che dalla pianura mena alla Fortezza Bastiani. Ha avuto un mese di licenza, ma dopo venti giorni già se ne ritorna; la città gli è ormai diventata completamente estranea, i vecchi amici hanno fatto strada, occupano posizioni importanti e lo salutano frettolosamente come un ufficiale qualsiasi. Anche la sua casa, che pure Drogo continua ad amare, gli riempie l'animo, quando lui ci ritorna, di una pena difficile da dire.
La casa è quasi ogni volta deserta, la stanza della mamma è vuota per sempre, i fratelli sono perennemente in giro, uno si è sposato e abita in una diversa città, un altro continua a viaggiare, nelle sale non ci sono più segni di vita familiare, le voci risuonano esageratamente, e aprire le finestre al sole non basta.
Così Drogo ancora una volta risale la valle della Fortezza ed ha quindici anni da vivere in meno. Purtroppo egli non si sente gran che cambiato, il tempo è fuggito tanto velocemente che l'animo non è riuscito a invecchiare. E per quanto l'orgasmo scuro delle ore che passano si faccia ogni giorno più grande, Drogo si ostina nella illusione che l'importante sia ancora da cominciare. Giovanni aspetta paziente la sua ora che non è mai venuta, non pensa che il futuro si è terribilmente accorciato, non è più come una volta quando il tempo avvenire gli poteva sembrare un periodo immenso, una ricchezza inesauribile che non si rischiava niente a sperperare.

- Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari.

mercoledì 24 settembre 2014

A poco a poco la fiducia si affievoliva. Difficile è credere in una cosa quando si è soli, e non se ne può parlare con alcuno. Proprio in quel tempo Drogo si rese conto che gli uomini, per quanto possano volersi bene, rimangono sempre lontani; che se uno soffre il dolore è completamente suo, nessun altro può prenderne su di sè una minima parte; che se uno soffre, gli altri per questo non sentono male, anche se l'amore è grande, e questo provoca la solitudine della vita.

- Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari.

lunedì 22 settembre 2014

"Andiamo in giardino un momento?" propose infine la ragazza non sapendo più cosa dire. "Il sole deve essere calato."
Si alzarono dal divano. Lei taceva, come aspettando che Drogo le parlasse, e lo guardava forse con un residuo di amore. Ma il pensiero di Giovanni, alla vista del giardino, volò ai magri prati che contornavano la Fortezza, anche lassù stava per giungere la dolce stagione, coraggiose erbette spuntavano fra i sassi. Proprio in quei giorni, centinaia di anni prima, erano forse arrivati i Tartari. Drogo disse: "Fa già un bel caldo per essere aprile. Vedrai che torna a piovere."
Proprio così disse, e Maria fece un piccolo sorriso desolato. "Si, fa troppo caldo" rispose con voce atona, ed entrambi si accorsero che tutto era finito.

- Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari.

domenica 21 settembre 2014

La ragione è che Filimore ha già aspettato troppo, e a una certa età sperare costa grande fatica, non si ritrova più la fede di quando si aveva venti anni.

- Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari.

giovedì 18 settembre 2014

Pensò di essere nel mondo dell'aldilà, apparentemente identico al nostro, solo che le belle cose si avverano secondo i giusti desideri e dopo essere stati soddisfatti si rimane con l'animo in pace, non come quaggiù dove c'è sempre qualche cosa che avvelena anche le giornate migliori.

- Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari.

domenica 14 settembre 2014

venerdì 12 settembre 2014

Quasi due anni dopo Giovanni Drogo dormiva una notte nella sua camera della Fortezza. Ventidue mesi erano passati senza portare niente di nuovo e lui era rimasto fermo ad aspettare, come se la vita dovesse avere per lui una speciale indulgenza. Eppure ventidue mesi sono lunghi e possono succedere molte cose: c'è tempo perché si formino nuove famiglie, nascano bambini e incomincino anche a parlare, perché una grande casa sorga dove prima c'era soltanto prato, perché una bella donna invecchi e nessuno più la desideri, perché una malattia, anche delle più lunghe, si prepari (e intanto l'uomo continua a vivere spensierato), consumi lentamente il corpo, si ritiri per brevi parvenze di guarigione, riprenda più dal fondo, succhiando le ultime speranze, rimane ancora tempo perché il morto sia sepolto e dimenticato, perché il figlio sia di nuovo capace di ridere e alla sera conduca le ragazze nei viali, e inconsapevole, lungo le cancellate del cimitero. L'esistenza di Drogo invece si era come fermata. La stessa giornata, con le identiche cose, si era ripetuta centinaia di volte senza fare un passo innanzi. Il fiume del tempo passava sopra la Fortezza, screpolava le mura, trascinava in basso polvere e frammenti di pietra, limava gli scalini e le catene, ma su Drogo passava invano; non era ancora riuscito ad agganciarlo nella sua fuga.
- Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari.

Questioni di (ir)responsabilità


Dopo quasi un mese di discussioni accese sull'argomento, la vicenda di Daniza è giunta ieri al suo (tristissimo) epilogo. L'orsa è "accidentalmente" morta durante la sua cattura a causa dell'anestetico (...).
Daniza non era italiana. Era stata portata qui dalla Slovenia insieme ad altri 9 orsi per via del PROGETTO LIFE URSUS nel 2000, al fine di aumentare la popolazione di orsi bruni nella zona, che si era ridotta drasticamente per ragioni inspiegabili. Nessuno le ha fatto la cortesia di chiederle se fosse intenzionata a partecipare al progetto. Semplicemente è stata catturata e portata qui. Lasciando perdere polemiche sterili sul fatto che tale progetto sia stato finanziato con i soldi dell'Unione Europea, e che quando l'UE ha stanziato fondi per fare le rotonde ho visto rotonde comparire magicamente pure su rettilinei in cui aveva accesso una vietta privata che portava ad una sola casa (devo continuare o al 2+2 ci arrivate anche voi?), questa vicenda, come altre già capitate in passato, mi spingono a riflettere su che idea abbiano le persone e le autorità sugli orsi. Deve esserci qualcosa di profondamente sbagliato se l'idea che abbiamo di un orso rimanda esclusivamente a Winnie the Pooh o a Yoghi, e non trovo altre spiegazioni se non questa, al fatto che un tizio scorgendo una mamma orsa con i propri cuccioli si nasconda dietro un albero a spiarli senza mettere in conto una possibile reazione di protezione/ tutela della prole da parte della madre. Ma parliamo dell'atto in sè, poi: nascondersi dietro ad un albero a spiare dei cuccioli. Una cosa che un predatore, in effetti, non si sognerebbe mai di fare. In genere i predatori corrono verso la preda agitando le zampe e gridando a squarciagola "Shamalaya". Strano che Daniza abbia reagito così. Reazione aggressiva? Sarà. Ma se un'orso, con la sua mole, si è limitata a due graffi e ad un morso (con le conseguenze del caso, si intende, era pur sempre un orso e non un gattino) non mi pare ci siano parole da spendere su questa presunta aggressività.
Si parla tanto di natura e di animali, ma fatti come questo non fanno che alimentare la mia convinzione che l'essere umano non abbia la più pallida idea di cosa natura e animali siano nella realtà, così abituato com'è a piegare tutto e tutti ai propri bisogni, alle proprie esigenze, a viverli come meri accessori utili solo ad arricchire la propria esistenza. Viene meno la capacità di capire che l'altro (in questo caso è un "altro" animale, ma il discorso ha la stessa identica valenza nei rapporti fra esseri umani) non è un oggetto inanimato ma è dotato di emozioni, sentimenti e bisogni che non necessariamente vanno nella nostra stessa direzione. Forse un orso bruno non è l'animale più adatto da avere come vicino di casa. Forse è divertente guardare le strategie di Yoghi per rubare i cestini ai turisti ed è tenero guardare un bambino dormire abbracciato ad un orsacchiotto, ma avere i propri animali sbranati da un orso non è piacevole e vederlo che si avvicina troppo ai centri abitati incute timore. Il punto è che questo tipo di problemantiche andavano preventivate prima dell'inserimento degli animali nella zona e, soprattutto in questo caso, la reazione seguita all'azione dell'orso mi è parsa a dir poco spropositata. Peggio di così si poteva solo andare tutti insieme con i forconi a caccia di Daniza per un linciaggio collettivo.
Si parla di chiedere dimissioni, ci sono forti reazioni di indignazione più che condivisibili, ma la domanda (provocatoria) è cosa un fatto del genere ci lascia, oltre alla possibilità di condividere link scritti da altri su facebook e riempirci la bocca di frasi fatte. Perchè se ci fermiamo a questo, allora anche noi stiamo cadendo nell'uso e consumo dell'altro in cui sono cadute le stesse persone che hanno trattato Daniza come una merce di profitto. Spero invece che questo fatto possa aiutare alcuni ad aprire uno squarcio sul velo delle proprie convinzioni relative agli animali, all'ambiente, al rapporto che abbiamo con loro, a ciò che ci sembra normale e giusto ma la cui normalità e giustizia forse non sono così scontate.

mercoledì 10 settembre 2014

Finalmente Drogo capì e un lento brivido gli camminò nella schiena. Era l'acqua, era, una lontana cascata scrosciante giù per gli spicchi delle rupi vicine. Il vento che faceva oscillare il lunghissimo getto, il misterioso gioco degli echi, il diverso suono delle pietre percosse ne facevano una voce umana, la quale parlava: parole della nostra vita, che si era sempre a un filo dal capire e invece mai.
Non era dunque il soldato che canterellava, non un uomo sensibile al freddo, alle punizioni e all'amore, ma la montagna ostile. Che triste sbaglio, pensò Drogo, forse tutto è così, crediamo che attorno ci siano creature simili a noi e invece non c'è che gelo, pietre che parlano una lingua straniera, stiamo per salutare l'amico ma il braccio ricade inerte, il sorriso si spegne, perché ci accorgiamo di essere completamente soli.

- Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari.

martedì 9 settembre 2014

Disteso sul lettuccio, fuori dell’alone del lume a petrolio, mentre fantasticava sulla propria vita, Giovanni Drogo invece fu preso improvvisamente dal sonno. E, intanto, proprio quella notte – oh, se l’avesse saputo, forse non avrebbe avuto voglia di dormire – proprio quella notte cominciava per lui l’irreparabile fuga del tempo. 
Fino allora egli era avanzato per la spensierata età della prima giovinezza, una strada che da bambini sembra infinita, dove gli anni scorrono lenti e con passo lieve, così che nessuno nota la loro partenza. Si cammina placidamente, guardandosi con curiosità attorno, non c’è proprio bisogno di affrettarsi, nessuno preme di dietro e nessuno ci aspetta, anche i compagni procedono senza pensieri, fermandosi spesso a scherzare. Dalle case, sulle porte, la gente grande saluta benigna, e fa cenno indicando l’orizzonte con sorrisi di intesa; così il cuore comincia a battere per eroici e teneri desideri, si assapora la vigilia delle cose meravigliose che si attendono più avanti; ancora non si vedono, no, ma è certo, assolutamente certo che un giorno ci arriveremo.
Ancora molto? No, basta attraversare quel fiume laggiù in fondo, oltrepassare quelle verdi colline. O non si è per caso già arrivati? Non sono forse questi alberi, questi prati, questa bianca casa quello che cercavamo? Per qualche istante si ha l’impressione di sì e ci si vorrebbe fermare. Poi si sente dire che il meglio è più avanti e si riprende senza affanno la strada. 
Così si continua il cammino in una attesa fiduciosa e le giornate sono lunghe e tranquille, il sole risplende alto nel cielo e sembra non abbia mai voglia di calare al tramonto. 
Ma a un certo punto, quasi istintivamente, ci si volta indietro e si vede che un cancello è stato sprangato alle spalle nostre, chiudendo la via del ritorno. Allora si sente che qualche cosa è cambiato, il sole non sembra più immobile ma si sposta rapidamente, ahimè, non si fa tempo a fissarlo che già precipita verso il confine dell’orizzonte, ci si accorge che le nubi non ristagnano più nei golfi azzurri del cielo ma fuggono accavallandosi l’una sull’altra, tanto è il loro affanno; si capisce che il tempo passa e che la strada un giorno dovrà pur finire. 
Chiudono a un certo punto alle nostre spalle un pesante cancello, lo rinserrano con velocità fulminea e non si fa tempo a tornare. Ma Giovanni Drogo in quel momento dormiva ignaro e sorrideva nel sonno come fanno i bambini. 
Passeranno dei giorni prima che Drogo capisca ciò che è successo. Sarà allora, come un risveglio. Si guarderà attorno incredulo; poi sentirà un trepestio di passi sopraggiungenti alle spalle, vedrà la gente, risvegliatasi prima di lui, che corre affannosa e lo sorpassa per arrivare in anticipo. Sentirà il battito del tempo scandire avidamente la vita. Non più alle finestre si affacceranno ridenti figure, ma volti immobili e indifferenti. E se lui domanderà quanta strada rimane, loro faranno sì ancora cenno all’orizzonte, ma senza alcuna bontà e letizia. Intanto i compagni si perderanno di vista, qualcuno rimane indietro sfinito, un altro è fuggito innanzi, oramai non è più che un minuscolo punto all’orizzonte. 
Dietro quel fiume – dirà la gente – ancora dieci chilometri e sarai arrivato. Invece non è mai finita, le giornate si fanno sempre più brevi, i compagni di viaggio più radi, alle finestre stanno apatiche figure pallide che scuotono il capo. 
Fino a che Drogo rimarrà completamente solo e all’orizzonte ecco la striscia di uno smisurato mare immobile, colore di piombo. Oramai sarà stanco, le case lungo la via avranno quasi tutte le finestre chiuse e le rare persone visibili gli risponderanno con un gesto sconsolato: il buono era indietro, molto indietro e lui ci è passato davanti senza sapere. Oh, è troppo tardi ormai per ritornare, dietro a lui si amplia il rombo della moltitudine che lo segue, sospinta dalla stessa illusione, ma ancora invisibile sulla bianca strada deserta.
Giovanni Drogo adesso dorme nell’interno della terza ridotta. Egli sogna e sorride. Per le ultime volte vengono a lui nella notte le dolci immagini di un mondo completamente felice. Guai se potesse vedere se stesso, come sarà un giorno, là dove la strada finisce, fermo sulla riva del mare di piombo, sotto un cielo grigio e uniforme e intorno né una casa né un uomo né un albero, neanche un filo d’erba, tutto così da immemorabile tempo.



- Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari

mercoledì 3 settembre 2014

E se le sottilizzazioni del Matti fossero tutte una commedia? Se in realtà, anche dopo i quattro mesi, non lo avessero più lasciato partire? Se con sofistici pretesti regolamentari gli avessero impedito di rivedere la città? Se avesse dovuto rimanere lassù per anni e anni, e in quella stanza, su quel solitario letto, si fosse dovuta consumare la giovinezza? Che ipotesi assurde, si diceva Drogo, rendendosi conto della loro stoltezza, eppure non riusciva a scacciarle, esse dopo poco tornavano a tentarlo, protette dalla solitudine della notte.

- Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari